
Jiří Orten
Confinata nel breve arco di ventidue anni e di poco piú di un triennio di vera attività, la vita di Jiří Orten (Ohrenstein, al secolo) ha lasciato a sua propria testimonianza un’opera poetica che, nella storia della letteratura cèca, è fondamentale e che resta comunque significativa. Orten aveva la coscienza del proprio valore e forse anche di quella che sarebbe stata la sua possibile grandezza: «Sono un Arthur Rimbaud che non è diventato tale. Sono un Arthur Rimbaud che ha avuto un diverso coraggio…», scriveva il 13 marzo 1939 nel suo diario di non ancora ventenne. Che cosa potrebbe essere questo diverso coraggio? Essere andato verso il centro e verso il fondo, anziché (e nell’impossibilità di) viaggiare anche lui verso una sua propria Abissinia? Avere risposto alla sfida della realtà – «changer la vie» è un compito universale, non soltanto riservato ai poeti – esorcizzandola, ibernandola viva nella scrittura?
Jiří Orten è un poeta. Jiří Orten è un poeta cèco, ossia poeta di una nazione i cui confini, nel duplice senso della chiusura e della difesa, coincidono con i confini della lingua; di una nazione la cui storia è storia in gran parte della sua lingua; di una nazione che è la sua propria lingua e che alla durata della lingua affida le sorti della sua stessa durata, al dramma di una lingua che da secoli è assillata dall’angoscia della propria morte il suo stesso dramma. In questa nazione che è la sua propria lingua, il poeta è il suo proprio testo, biologia e biografia interamente confidate alla scrittura: Orten è il poeta cèco che scrive se stesso. Non il solo, evidentemente: ma quanto mai tipico campione di una linea che dal romantico Karel Hynek Mácha persiste tuttora come linea privilegiata della letteratura boema e che annovera tra i suoi rappresentanti contemporanei poeti della statura di František Halas e Vladimír Holan; linea «tragica» di una lingua che fruga sotto le parole, che vede se stessa, che ripensa il proprio corpo, che vuole trattenersi con le proprie mani, che sa la sua morte.
La tipicità di Orten è tutta nella singolare e drammatica coincidenza di questa poetica con le circostanze della sua breve vita; certamente anche un Halas arriverà, verso la fine, a desiderare esplicitamente di «scrivere se stesso, avulso dalla Poesia» e un Holan a considerare la parola parte della realtà e il segno come parte della cosa. Ma ciò che nei due maggiori poeti cèchi è risultato di una maturità lungamente meditata e conquistata, di una vocazione intellettualmente consapevole, è in Orten destino, subíto ancor prima che scelto, a tutti i livelli dell’esistenza: «…Scrivo l’epitaffio del mio amore e mi pongo come compito per l’avvenire il silenzio. Scrivo l’epitaffio, perché solo questo è il mio mondo, la mia speranza, la mia fede, scrivere, scrivere fino al termine estremo» (7 dicembre 1940).
Ma il duplice ghetto kafkiano è quasi innocuo in confronto al duplice ghetto di Orten: ebreo e cèco al tempo medesimo e in un tempo storico in cui a cèchi e ad ebrei la dominazione nazista propone una comune destinazione allo sterminio. E la lingua è l’unica via d’uscita dalla continua, sistematica sconfitta dell’esistenza: la grande rivolta hussita e la sua fine, la Montagna Bianca, la schiavitú secolare, la riconquista dell’indipendenza, la nuova dominazione costituiscono nella storia della nazione cèca altrettante impennate seguite da cadute, un modello di svolgimento storico dove la lingua resta la sola realtá apparentemente invulnerabile e tuttavia la piú spietata coscienza di una perenne condizione di vulnerabilità; e cosí in Orten, nel corpo vile, nella vicenda di questo (com’egli scrive di sé) «sofferente, braccato ometto», per il quale una stessa sentenza di morte discende dalla faccia di una qualsiasi Vera meditante l’inganno o il congedo e dai «divieti» del Reichsprotektor. La češství (come tradurre? Cèchitùdine?) della poesia di Orten, confronto continuo col tempo e con la morte che accomuna il poeta alla sua nazione, si riassume qui, nel suo sfolgorante e straziante triennio nel suo impennarsi solamente in se stesso, nel proprio corpo, nella lingua che è il suo corpo, nel suo continuo guardare dentro la morte. Dicevamo: la scrittura, come unica via d’uscita. Ma è meglio precisare: non la scrittura, piuttosto lo scrivere, l’atto materiale dello scrivere, penna e Quaderni. Morda kniha, Cervenákniha (il Quaderno azzurro, il Quaderno zigrinato, il Quaderno rosso), in cui tra le date del 10 gennaio 1938 e del 29 agosto 1941 si raccoglie la quasi totalitá degli scritti di Jiří Orten, nascono da un quotidiano e triennale presentimento di morte, da un quotidiano e triennale esorcismo della morte, da un quotidiano e triennale trafugamento e salvamento di realtá, di individualità fisica, nell’habeas corpus della pagina: poesie scritte giorno per giorno, ognuna con la sua data, ognuna spiegata illuminata connotata da appunti in prosa che nella lettera del verso a loro volta si connotano. È un’opera tutta al presente, tutta tesa a cogliere se stessa, dove dell’espediente letterario ci potrá essere tutt’al piú la tentazione, sguardo al di lá della balaustra del tempo verso una precaria posteritá («Ho vissuto in un tempo di grande ottenebramento del mondo, che nessuno degli uomini lo dimentichi, se un giorno m’incontrerá» (2 giugno 1940); ma la sua caratteristica essenziale è il suo essere assolutamente vicaria della vita, con una esclusivitá che in pratica l’antepone alla vita, ne fa vita nel senso piú totale: «È stolto il dire a me stesso che finora sono stato un poeta e d’ora in poi sarò soltanto un sofferente, braccato ometto. Quel nucleo, succoso e sano, che la mia anima custodiva, custodisce e custodirá di fronte ai vermi, è tuttora al suo posto. Parola, bacio, angoscia, disprezzo, incomprensione, lode, malattia, amore, tutto questo serve soltanto a uno scopo; a guidare la mia mano…» (19 marzo 1939).
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«Non sei mai solo, sei sempre con la morte, | suo figlio o suo disertore»: è un altro poeta boemo, Josef Hora, che scrive questi versi, cosí simbolici della condizione della sua lingua, la lingua di Mácha-Halas-Holan-Orten e al tempo stesso la lingua di ogni loro «contrario» contemporaneo; la lingua della češství, della linea privilegiata, ma anche la lingua dell’altra zona, dell’«arte di vivere e godere». Nello stesso anno (1940) in cui Vítězslav Nezval porta sulla scena la riduzione in versi di Manon Lescaut, con il personaggio della donna-farfalla, donna-bambina, gioco dei sensi liberati dal corpo linguistico, Orten annota nel Quaderno zigrinato, ai primi di gennaio, i versi di Allegramente: «Non la mia morte, ma dico uno stupore che si spegne, | dico solo una pietra, greve sulla parola, | pietra di tomba, pietra come tante, | che si sgretola e muore, a essere pronunziata. || Allegramente siamo stati pronunziati | Suonare, sussurrare, tacere, tremare — ma a dove?»; e qualche mese dopo, ancora: «Non scrivere, non leggere nemmeno…»
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Giovanni Giudici e Vladimír Mikeš, dall’introduzione di “Jiří Orten, La cosa chiamata poesia”, Einaudi, Torino, 1969

[…] Jiří Orten, La cosa chiamata poesia – Prefazione […]
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