Color degli occhi e domande – Tadeusz Różewicz

Dirk Wüstenhagen

 

Ha la mia amata
azzurri gli occhi
con una scheggia d’argento
No

Ha la mia diletta
castani gli occhi
con una scintilla d’oro
No

Ha la mia amata
neri gli occhi
senza luce
No

La mia diletta ha gli occhi
che cadono sopra di me
come una pioggia
grigia autunnale

Tadeusz Różewicz

1954

(Traduzione di Carlo Verdiani)

da “Sorrisi (1945-1956)”, in “Il guanto rosso e altre poesie”, Libri Scheiwiller, 2003

∗∗∗

Kolor oczu i pytania

Czy moja ukochana
ma modre oczy
ze srebrną drzazgą
Nie

Czy moja miła
ma piwne oczy
ze złotą iskrą
Nie

Czy moja ukochana
ma czarne oczy
bez światła
Nie

Moja miła ma oczy
które opadają na mnie
jak jesienny
szary deszcz

Tadeusz Różewicz

da “Poezje żebrane” (Poesie raccolte), Wrocław, Ossolineum, 1971

Diario bizantino – Cristina Campo

I

Due mondi – e io vengo dall’altro.

Dietro e dentro
le strade inzuppate
dietro e dentro
nebbia e lacerazione
oltre caos e ragione
porte minuscole e dure tende di cuoio,
mondo celato al mondo, compenetrato nel mondo,
inenarrabilmente ignoto al mondo,
dal soffio divino
un attimo suscitato,
dal soffio divino
subito cancellato,
attende il Lume coperto, il sepolto Sole,
il portentoso Fiore.

Due mondi – e io vengo dall’altro.

La soglia, qui, non è tra mondo e mondo
né tra anima e corpo,
è il taglio vivente ed efficace
più affilato della duplice lama
che affonda
sino alla separazione
dell’anima veemente dallo spirito delicato
– finché il nocciolo ben spiccato ruoti dentro la polpa –
e delle giunture dagli ossi
e dei tendini dalle midolla:
la lama che discerne del cuore
le tremende intenzioni
le rapinose esitazioni.

Due mondi – e io vengo dall’altro.

O chiave che apri e non chiudi,
chiudi e non apri e conduci
teneramente il vinto fuor della casa del carcere
e fuor dell’ombra della morte
e il senzatetto negli atrî luminosi
dei mille occhi impassibili
di chi ha compiutamente patito
e delle mani contro la notte levate
nel santo ideogramma della benedizione –
disegnati
ridisegnati
secondo gli otto toni che separano gli otto cieli
con l’erotico incenso e il ferale myron,
al centro del petto, al centro del Sole, là dove il Nome
myron effuso è il Tuo Nome!
rapisce in vortice immoto alla vita del mondo,
zampilla nuovi sensi dal mondo della morte.

II

Uno a uno vengono accesi i volti
alle radici millenarie
della selva d’icone,
per fare di giorno notte,
neve e stelle,
per far della tenebra rose
– più che rugiada trasparenti rose.
E la fiamma sboccia come il bacio all’icona
e il bacio sboccia come la rosa all’icona,
culmini della linfa della terra,
culmini del respiro dell’amore.
Ma la Luna qui
sboccia nel Sole,
la Luna partorisce il Sole.

Alla pesante pioggia
dell’altro mondo s’intesse
il soave scrosciare delle dalmatiche di questo mondo,
l’altero volo dei veli di questo mondo
inenarrabilmente ignoto al mondo.
Estatici allarmi ed appelli
d’angeli ministranti:
Le porte! Le porte!
escano i catecumeni!
Tre volte beato l’inno,
tre volte divina la folgore
teologica dei Cherubini,
ingiunge di deporre, disperdere dimenticare
ogni sollecitudine mondana.
Nessun catecumeno rimanga!

O imperiale fragranza,
olio di rosa bulgara che misteriosamente dischiudi
tra ciglia umettate l’occhio
della fronte, l’occhio del cuore, l’occhio del Nome
myron effuso è il Tuo Nome!
Macerato con sessanta aromi
su un fuoco di vecchie icone
estinte da baci da fiamme e da lacrime
per gli eoni degli eoni
ruotate tre notti
tre giorni
sulle spirali del Verbo,
stilli ora luminosa intorno al trono
del Basileo morto
dell’immortale Archiereo:
che tragicamente s’arma, aquila librata
sopra la gnostica aquila della città inviolata
dal capo alla mano alla gamba
per la terrificante operazione.
Tempo è di cominciare, Despota santo…
Nessun catecumeno rimanga!
Ruota
lentissima intorno e folgorante
siderale e selvaggia
danza d’angeli e di ghepardi…

Pànico centrifugo
e centripeto rapimento
dei cinque sensi nel turbine incandescente:
spezzato, aperto di forza l’orecchio dell’intendimento
dalla ritmata percossa delle catene d’argento;
poi, nel cosmico manto
dei tre fiumi e dei quattro quadranti
dalla lenta inaudibile benedizione:
poiché qui Dio non parla nel vento,
Dio non parla nel tuono:
parla in un piccolo alito
e ci si vela il capo per il terrore.

III

O despota ferito
che col bisturi d’oro
ad ogni sole tagli nel tondo Sole
l’Agnello immedicabile,
tagli la Luna sovrana, tagli le Stelle fisse
e le opposte galassie
(cibo di salute, cibo di pace!)
dei vivi sui due versanti della morte!
Tremendo è che nei nostri sguardi affondi
l’impassibile sguardo
di Chi ha compiutamente patito,
di Chi con la stessa mano imparte ed è impartito,
e spezzando è spezzato,
immolando immolato,
mangiato e mai consumato

(con desiderio ho desiderato…)
Tremendo che a ciascuno
sia di nuovo irrevocabilmente assegnato
per gli eoni degli eoni
come nell’Eden il suo nome e il suo cibo.

Faccia a terra le incorporee Legioni,
gli Arcistrateghi di luce,
i nostri denti affondano nelle carni dei cieli…
Ma le nostre bocche mai svezzate,
in eterno grondanti la purpurea
gloria ciecamente donata
e ciecamente ricevuta,
si ostinano a impetrare
(con desiderio ho desiderato)
per te, per te, signore,
la pace che sovrasta ogni ragione,
ogni intendimento, ogni tradimento: la pace
che non ti possiamo dare…

Lungo l’intero giorno,
lungo l’intera via che porta a questo mondo
e cancella ogni via che porti a questo mondo,
lungo la dura tenda
di pioggia e lacerazione
di caos e di ragione,
lungo i due fili della duplice lama
di intenzioni e di esitazioni
come te, come te, signore,
noi siamo consegnati a quella morte
che con più denti dell’amore morde
e separa la rosa
dal bacio e dalla fiamma e dalle stelle le nevi
e l’emozione dall’intellezione
e il mondo ricompone
ma atrocemente, ma come attraverso il fuoco,
per chi, Despota puro, dal puro Nome sarà salvato
e dal sepolto Sole e
dal tremendo
Dono.

IV

Nell’oro e nell’azzurro
di questo minimo cosmo
loculo d’antichissimo colombario,
gyrum coeli circuisti sola,
neonata parola
du kleine, waffenlose Dichterin! Per un’ora
nei padiglioni del tuo Creatore
gyrum coeli giocando ti fu ridato
l’anello bianco di San Vitale
la costellazione sovranamente immota,
sovranamente ordinata
intorno al sole del temporale signore
e del signore spirituale:
i cento occhi cherubinici non fissi su di te
ma sugli augusti deserti che dovrai traversare
che ti dovranno traversare.
Dai cigli sconfinati
sopra il latteo pallio di Massimiliano
alla stola color foglia del fanciullo di frange nere
che, rosa
– più che neve trasparente rosa –
lascia tremar sul cero la fiamma come un bacio,
lascia tremar l’aër, neve leggera,
e lo sciàmito purpureo sul Calice che non è dato
durante cinquanta giorni
nemmeno contemplare…

O Coppa dei Misteri che bolle e non trabocca,
come il tuo sangue, specchio del tuo Sole!
o tacere dei canti, polverizzato il cuore!
Cocente, celestiale,
cadenzato dolore
che, neonata, giocando dinanzi al tuo Creatore,
circuisti sola.

Cristina Campo

da “La Tigre Assenza”, Adelphi Edizioni, 1991

Negli alberi – Adam Zagajewski

Michael Kenna, Windy Trees, Les Tuileries, Paris, France

 

Negli alberi, nelle loro chiome, sotto sontuose
vesti di foglie e sottane di luce,
sotto i sensi, sotto le ali, sotto gli scettri,
negli alberi si cela, respira, palpita
una vita quieta, sonnolenta, un abbozzo d’eterno.
Prosperi reami crescono nell’ambone
delle querce. Gli scoiattoli corrono, immobili
come piccoli tramonti rossi nascosti
sotto le palpebre. Ostaggi invisibili
formicolano sotto i gusci delle ghiande,
gli schiavi portano cesti con frutta e argento,
i cammelli oscillano come studiosi
arabi sopra i loro manoscritti, i pozzi
bevono acqua e aceto, l’acerba Europa
stilla come resina dal legno, Vermeer dipinge
vesti e una luce che non va scemando.
Sotto la cupola del circo danzano i tordi.
Slowacki già abita a Parigi e gioca
perseverante in borsa. Un ricco
si infila nella cruna d’un ago
e geme, ah, che tortura, Socrate
spiega ai cercatori d’oro che cos’è
la menzogna, che cosa il bene e la virtù.
I rematori remano lenti. E lente navigano
le barche a vela. I fuggitivi dell’Insurrezione
di Varsavia bevono un tè dolce,
sui rami asciuga la biancheria,
qualcuno nel sonno chiede «dov’è
la mia patria». Un veliero verde è fissato
a un’ancora arrugginita. Un coro di anime immortali
prova una cantata di Bach, in silenzio.
Accanto, su un angusto divano, dorme, stanco,
capitan Nemo. Un picchio trasmette un telegramma
urgente con la notizia della conquista
di Cartagine e del Boston Tea Party.
La donnola non si tramuta affatto
in lady Macbeth, nelle chiome degli alberi
non esistono rimorsi. Icaro serenamente affoga.
Dio riavvolge il nastro. Le spedizioni punitive
rientrano in caserma. Vivremo a lungo
negli intrecci di un arabesco, nel balbettio
dell’allocco, nel desiderio, nell’eco
senza casa, sotto sontuose vesti di foglie,
nelle chiome degli alberi, nell’altrui respiro.

Adam Zagajewski

(Traduzione di Krystyna Jaworska)

da “Andare a Leopoli e altre poesie”, 1985, in “Dalla vita degli oggetti”, Poesie 1983-2005, Adelphi, 2012

∗∗∗

W drzewach

W drzewach, w koronach drzew, pod sutymi
sukniami liści, pod sutannami blasku,
pod zmysłami, pod skrzydłami, pod berłami,
w drzewach kryje się, oddycha, kołuje
ciche, senne życie, szkic wieczności.
Syte królestwa rosną w ambonach
dębów. Wiewiórki biegną nieruchomo
jak małe rude zachody słońca, schowane
pod powieką. Niewidoczni zakładnicy
mrowią się pod łuskami żołędzi,
niewolnicy znoszą kosze owoców i srebra,
wielbłądy kołyszą się jak arabski
uczony nad manuskryptem, studnie piją
wodę i ocet, cierpka Europa sączy się
jak żywica z drewna. Vermeer maluje
szaty i światło, którego nie ubywa.
Pod kopułą cyrku tańczą drozdy.
Słowacki już mieszka w Paryżu
i gra wytrwale na giełdzie. Bogacz
przeciska się przez ucho igielne
i stęka ach jaka męka, Sokrates
wyjaśnia poszukiwaczom złota, czym
jest kłamstwo, czym dobro, czym cnota.
Wioślarze powoli wiosłują. Żeglarze
powoli żeglują. Uciekinierzy z Powstania
Warszawskiego piją słodką herbatę,
na gałęziach suszy się bielizna,
ktoś pyta przez sen gdzie jest moja
ojczyzna. Zielony żaglowiec stoi na
rdzawej kotwicy. Chór dusz nieśmiertelnych
ćwiczy kantatę Bacha, całkiem niemo.
Obok na wąskiej kozetce śpi zmęczony
kapitan Nemo. Dzięcioł nadaje pilny
telegram z wiadomością o zdobyciu
Kartaginy i o herbatce w Bostonie.
Łasica wcale się w lady Makbet nie
przemienia, w koronach drzew nie ma
wyrzutów sumienia. Ikar spokojnie tonie.
Bóg cofa taśmę. Ekspedycje karne
wracają do koszar. Będziemy żyli
długo w liniach arabeski, w bełkocie
puszczyka, w pożądaniu, w echu, które
jest bezdomne, pod sutymi sukniami liści,
w koronach drzew, w czyimś oddechu.

Adam Zagajewski

da “Jechać do Lwowa”, London: Aneks, 1985

Oltre il tempo, oltre un angolo – Cristina Campo

 

What sorrow
beside your sadness
and what beauty
W.C. Williams

Troppe cose hanno accolto le tue palpebre
l’attenzione t’ha consumato le ciglia.
Troppe vie t’hanno ripetuta,
stretta, inseguita.

La città da secoli ti divora
ma per te travede, sogno e sfacelo,
di luci e piogge, lacrime senili
sulla ragazza che passa
febbrile, indomabile, oltre il tempo, oltre un angolo.

Ritorna! Gridano i vecchi di Santa Maria del Pianto,
la ronda della piscina di Siloè
con i cani, gl’ibridi, gli spettri
che non si sanno e tu sai
radicati con te
nel glutine blu dell’asfalto
e credono al tuo fiore che avvampa, bianco −

poiché tutti viviamo di stelle spente.

Cristina Campo

da “Poesie Sparse”, in “Cristina Campo, La Tigre Assenza”, Adelphi, 1991

Un tempo gli alberi avevano occhi – Ana Blandiana

Foto di Anka Zhuravleva

 

Un tempo gli alberi avevano occhi,
posso giurarlo,
so di certo
che vedevo quando ero albero,
ricordo che mi stupivano
le strane ali degli uccelli
che mi sfrecciavano davanti,
ma se gli uccelli sospettassero
i miei occhi,
questo non lo ricordo più.
Invano ora cerco gli occhi degli alberi.
Forse non li vedo
perché albero non sono più,
o forse sono scivolati lungo le radici
nella terra,
o forse,
chissà,
solo a me m’era parso
e gli alberi sono ciechi da sempre…
Ma allora perché
quando mi avvicino
sento che
mi seguono con gli sguardi,
in un modo che conosco,
perché, quando stormiscono e occhieggiano
con le loro mille palpebre,
ho voglia di gridare −­
Cosa avete visto?…

Ana Blandiana

(Traduzione di Biancamaria Frabotta e Bruno Mazzoni)

da “Ottobre, Novembre, Dicembre”, in “Un tempo gli alberi avevano occhi”, Donzelli Poesia, 2004

***

Cândva arborii aveau ochi

Cândva arborii aveau ochi,
Pot să jur,
Ştiu sigur
Că vedeam când eram arbore,
Îmi amintesc că mă mirau
Ciudatele aripi ale păsărilor
Care-mi treceau pe dinainte,
Dar dacă păsările bănuiau
Ochii mei,
Asta nu îmi mai aduc aminte.
Caut zadarnic ochii arborilor acum.
Poate nu-i văd
Pentru că arbore nu mai sunt,
Sau poate-au coborât pe rădăcini
În pământ,
Sau poate,
Cine ştie,
Mi s-a părut numai mie
Şi arborii sunt orbi dintru-nceput…
Dar atunci de ce
Când trec de ci aproape
Simt cum
Mă urmăresc cu privirile,
Într-un fel cunoscut,
De ce, când foşnesc şi clipesc
Din miile lor de pleoape,
Îmi vine să strig –
Ce-aţi văzut?…

Ana Blandiana

da “Octombrie-Noiembrie-Decembrie”, Cartea Româneascà, 1972