a Sandro Martini
La memoria insiste
sul legno abraso e opaco
dove la mano, nel tempo,
briciola su briciola, minima, invisibile,
ha eroso d’affetto il suo colore, il rosso,
il rosso umano dell’attrezzo.
In queste fruste teche barocche,
resiste l’attrezzo antico, povero
come la mano attiva. Povero e enorme
come la macchina meccanica
nobile e astrusa, cieco ordigno
che ruota e lavora la piazza.
Le cose, vedi, si nutrono di noi, ci assorbono
nelle crepe e nei cunicoli
sfaldati del colore, nelle ditate
che macchiano un po’ l’impugnatura,
la vernice. Ci assorbono, le cose,
nei pori pazienti. Ma oggi
di meno, sempre meno, perché
siamo altrove, schermati. Ricordi
il cordaio di Roma, il vasaio del Nilo?
L’oggetto, avvilito,
non ha più da noi il suo nome,
né senso di terra e di cuore.
Ci è accanto remoto. Così,
senza traccia né attrito, ci siamo
estraniati, ci siamo un po’ persi
in questa identità pulviscolare.
Maurizio Cucchi
da “Vite pulviscolari”, “Lo Specchio” Mondadori, 2009
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