
Herman Richir, A naked woman, Portrait of Marie – Madeleine
I
(Figlio dell’ombra)
Tu sei la notte, sposa: la notte nell’istante
di sua maggior potenza femminile e lunare.
Tu sei la mezzanotte: l’ombra che perviene
fin all’estrema vetta del sogno e dell’amore.
Forgiato dal giorno, il mio rovente cuore lascia
dove tu vuoi la sua grande orma di sole,
con un robusto impulso, una luce sublime,
delle mattine e dei tramonti guizzo supremo.
Assalterò il tuo corpo quando la notte esala
la sua avida ansia di potere e d’incanto.
Un astrale sentimento febbrile m’investe
e con un brivido m’incendia tutte le ossa.
Il vento della notte scompagina il tuo seno,
scompagina e travolge i corpi col suo urto.
Come una gran tempesta di deliranti letti,
eclissa le coppie, le fonde in un solo blocco.
La notte s’è tutta accesa come un sordo incendio
di vampate minerali e di segreti scontri.
E intorno palpita l’ombra come se incarnasse
le anime vagolanti dei pozzi e del vino.
Già l’ombra è il nido racchiuso, incandescente,
l’evidente cecità che sovrasta chi ama:
già l’abbraccio profondo stimola, ciecamente,
già nei suoi antri accoglie quanto la luce spande.
L’ombra vuole ed esige esseri stretti in groviglio,
baci che la costellino di prolungati lampi,
bocche furiose ed agitate che s’avvinghino,
un tubare che ai suoi muti letarghi dia armonia.
Vuole che ci gettiamo, tu ed io, sulla coltre,
tu ed io sulla luna, tu ed io sulla vita.
Vuole che noi bruciamo e nella gola uniamo,
con tutto il firmamento, la terra abbrividita.
Il figlio è nell’ombra che ammassa stelle brillanti,
amore, midollo, luna e limpide oscurità.
Dalle sue indolenze germoglia e dai suoi fori,
e dalle solitarie ed appannate sue città.
Il figlio è nell’ombra: dall’ombra è scaturito,
e al suo nascere recano gli astri una semina,
un succo latteo, un flusso di calde pulsazioni,
che le sue ossa spingerà al sonno e alla donna.
L’ombra muove ora le sue forze siderali,
distende l’ ombra le sue tenebre costellate,
e travolge le coppie e alle nozze le invola.
Tu sei la notte, sposa. Ed io sono il meriggio.
II
(Figlio della luce)
Tu sei l’aurora, sposa: la penombra essenziale,
e socchiuse ricevi le ore dalla fronte.
Pronto allo splendore, ma socchiuso, il tuo corpo emana
luce. Le tue viscere forgiano il primo sole.
Centro dei chiarori, la grande ora ti attende
sulla soglia d’un fuoco che il fuoco stesso avvampa:
ed io t’aspetto, chino come il grano nell’aia,
la nostra casa ponendo al centro della luce.
La notte sprigionata fino dai pozzi oscuri,
nei pozzi s’ immerge dove ha gettato radici.
E tu al parto luminoso ti apri, fra muri
che con te si squarciano come petree matrici.
È l’ora grande del parto, la piú intensa ora:
scoppiano gli orologi nell’udire il tuo grido,
s’apron tutte le porte del mondo, dell’aurora,
e sorge il sole nel tuo ventre, che fu suo nido.
Il figlio fu dapprima ombra e stoffa cucita
dal tuo cuore fondo entro le tue fonde mani.
Con ombre e con panni ha anticipato la vita,
con ombre e con panni fati germogli umani.
Le ombre ed i panni senz’abitanti, deserti,
si sono animati d’ un bimbo chiassoso e un moto,
che nella nostra casa le porte ha spalancato,
e vi occupa strillando il luminoso trono.
La vita è un patire felice, ma moribondo:
ombre e panni recò quella del figlio che chiami.
Ombre e panni portano gli uomini pel mondo.
E tutti lasciano sempre ombre: panni e ombre.
Figlio tu sei dell’aurora, figlio del meriggio.
E di te luci dovranno restare dovunque,
mentre tua madre ed io andiamo all’agonia,
addormentati e desti, e con l’amore in spalla.
Parlo, ed il cuore già dal mio respiro affiora.
Mi soffocherebbe, se tacessi, il tanto amore.
Con resine e spigo profumo la tua dimora.
Tu sei l’aurora, sposa. Ed io sono il meriggio.
III
(Figlio della luce e dell’ombra)
Nell’alba tessuti, e nell’alba impressi, due favi
non possono arrestare il miele nei capezzoli.
E i tuoi seni nell’alba: due materne sorgenti,
che lottano e s’incalzano con bianche effusioni.
Son straripate, sposa, le tue vene lunari,
fino a inondar la casa che il tuo sapore emana.
È come se tu sgorgassi da una folla d’arnie,
tu simile a tutta un’arnia di latte e di spuma.
È come se il tuo sangue fosse tutta dolcezza,
e laboriose api filtrate dai tuoi pori.
Sento un chiasso di latte, d’alluvione, di nozze
accanto a te, percorsa da sonore abbondanze.
Donna copiosa: nel tuo ventre mi seppellisco.
Il tuo ventre copioso sarà mia sepoltura.
Se mi bruciassero l’ossa con fiamma del ferro,
vedranno che lí io porto incisa la tua effigie.
Fusi per l’eterno noi rimaniamo nel figlio:
fusi come anelano le nostre ansie voraci:
i due rami in un sol ramo di tempo, di sangue,
i due fasci in un fascio di carezze, di chiome.
I morti, con un gelido fuoco che divampa,
accanto ai vivi palpitano ostinatamente.
E viene il figlio a occupare i campi e la casa
che tu ed io lasciamo qui da presso restando.
Del figlio faremo rigenerante alimento,
e lui di nostra carne materia decisiva:
dove gli posino l’anima le mani e il fiato
girino le eliche e l’agricoltura viva.
Grazie a lui non cadrà questa vita in rovina,
frammento separato dei nostri due frammenti,
che delle nostre bocche farà una sola spada
e due braccia eterne delle nostre quattro braccia.
In te sola non t’amo: t’amo nella tua stirpe
e in ciò che dal tuo ventre discenderà domani.
Poiché l’umana specie m’hanno dato in retaggio,
la famiglia del figlio sarà la specie umana.
Cosí, l’amore in spalla, addormentati e desti,
continueremo a baciarci nel figlio profondo.
E nel bacio nostro si baciano i nostri morti,
si baciano i primi abitatori della terra.
Miguel Hernández
(Traduzione di Dario Puccini)
da “Ultime poesie”, 1939 – 1941, in “Miguel Hernández, Poesie”, Feltrinelli Editore, 1962
∗∗∗
Hijo de la luz y de la sombra
I
(Hijo de la sombra)
Eres la noche, esposa: la noche en el instante
mayor de su potencia lunar y femenina.
Eres la medianoche: la sombra culminante
donde culmina el sueño, donde el amor culmina.
Forjado por el día, mi corazón que quema
lleva su gran pisada de sol adonde quieres,
con un solar impulso, con una luz suprema,
cumbre de las mañanas y los atardeceres.
Daré sobre tu cuerpo cuando la noche arroje
su avaricioso anhelo de imán y poderío.
Un astral sentimiento febril me sobrecoge,
incendia mi osamenta con un escalofrío.
El aire de la noche desordena tus pechos,
y desordena y vuelca los cuerpos con su choque.
Como una tempestad de enloquecidos lechos,
eclipsa las parejas, las hace un solo bloque.
La noche se ha encendido como una sorda hoguera
de llamas minerales y oscuras embestidas.
Y alrededor la sombra late como si fuera
las almas de los pozos y el vino difundidas.
Ya la sombra es el nido cerrado, incandescente,
la visible ceguera puesta sobre quien ama;
ya provoca el abrazo cerrado, ciegamente,
ya recoge en sus cuevas cuanto la luz derrama.
La sombra pide, exige seres que se entrelacen,
besos que la constelen de relámpagos largos,
bocas embravecidas, batidas, que atenacen,
arrullos que hagan música de sus mudos letargos.
Pide que nos echemos tú y yo sobre la manta,
tú y yo sobre la luna, tú y yo sobre la vida.
Pide que tú y yo ardamos fundiendo en la garganta,
con todo el firmamento, la tierra estremecida.
El hijo está en la sombra que acumula luceros,
amor, tuétano, luna, claras oscuridades.
Brota de sus perezas y de sus agujeros,
y de sus solitarias y apagadas ciudades.
El hijo está en la sombra: de la sombra han surtido,
y a su origen infunden los astros una siembra,
un zumo lácteo, un flujo de cálido latido,
que ha de obligar sus huesos al sueño y a la hembra.
Moviendo está la sombra sus fuerzas siderales,
tendiendo está la sombra su constelada umbría,
volcando las parejas y haciéndolas nupciales.
Tú eres la noche, esposa. Yo soy el mediodía.
II
(Hijo de la luz)
Tú eres el alba, esposa: la principal penumbra,
recibes entornadas las horas de tu frente.
Decidido al fulgor, pero entornado, alumbra
tu cuerpo. Tus entrañas forjan el sol naciente.
Centro de claridades, la gran hora te espera
en el umbral de un fuego que el fuego mismo abrasa:
te espero yo, inclinado como el trigo a la era,
colocando en el centro de la luz nuestra casa.
La noche desprendida de los pozos oscuros,
se sumerge en los pozos donde ha echado raíces.
Y tú te abres al parto luminoso, entre muro
que se rasgan contigo como pétreas matrices.
La gran hora del parto, la más rotunda hora:
estallan los relojes sintiendo tu alarido,
se abren todas las puertas del mundo, de la aurora,
y el sol nace en tu vientre, donde encontró su nido.
El hijo fue primero sombra y ropa cosida
por tu corazón hondo desde tus hondas manos.
Con sombras y con ropas anticipó su vida,
con sombras y con ropas de gérmenes humanos.
Las sombras y las ropas sin población, desiertas,
se han poblado de un niño sonoro, un movimiento,
que en nuestra casa pone de par en par las puertas,
y ocupa en ella a gritos el luminoso asiento.
¡Ay, la vida: qué hermoso penar tan moribundo!
Sombras y ropas trajo la del hijo que nombras.
Sombras y ropas llevan los hombre por el mundo.
Y todos dejan siempre sombras: ropas y sombras.
Hijo del alba eres, hijo del mediodía.
Y ha de quedar de ti luces en todo impuestas,
mientras tu madre y yo vamos a la agonía,
dormidos y despiertos con el amor a cuestas.
Hablo y el corazón me sale en el aliento.
Si no hablara lo mucho que quiero me ahogaría.
Con espliego y resinas perfumo tu aposento.
Tú eres el alba, esposa. Yo soy el mediodía.
III
(Hijo de la luz y la sombra)
Tejidos en el alma, grabados, dos panales
no pueden detener la miel en los pezones.
Tus pechos en el alba: maternos manantiales,
luchan y se atropellan con blancas efusiones.
Se han desbordado, esposa, lunarmente tus venas,
hasta inundar la casa que tu sabor rezuma.
Y es como si brotaras de un pueblo de colmenas,
tú toda una colmena de leche con espuma.
Es como si tu sangre fuera dulzura toda,
laboriosas abejas filtradas por tus poros.
Oigo un clamor de leche, de inundación, de boda
junto a ti, recorrida por caudales sonoros.
Caudalosa mujer, en tu vientre me entierro.
Tu caudaloso vientre será mi sepultura.
Si quemaran mis huesos con la llama del hierro,
verían qué grabada llevo allí tu figura.
Para siempre fundidos en el hijo quedamos:
fundimos como anhelan nuestras ansias voraces:
en un ramo de tiempo, de sangre, los dos ramos,
en un haz de caricias, de pelo, los dos haces.
Los muertos, con un fuego congelado que abrasa,
laten junto a los vivos de una manera terca.
Viene a ocupar el hijo los campos y la casa
que tú y yo abandonamos quedándonos muy cerca.
Haremos de este hijo generador sustento,
y hará de nuestra carne materia decisiva:
donde sienten su alma las manos y el aliento
las hélices circulen, la agricultura viva.
Él hará que esta vida no caiga derribada,
pedazo desprendido de nuestros dos pedazos,
que de nuestras dos bocas hará una sola espada
y dos brazos eternos de nuestros cuatro brazos.
No te quiero a ti sola: te quiero en tu ascendencia
y en cuanto de tu vientre descenderá mañana.
Porque la especie humana me han dado por herencia
la familia del hijo será la especie humana.
Con el amor a cuestas, dormidos y despiertos,
seguiremos besándonos en el hijo profundo.
Besándonos tú y yo se besan nuestro muertos,
se besan los primeros pobladores del mundo.
Miguel Hernández
da “Últimos poemas”, 1939 – 1941, in “Miguel Hernández, Antologia poetica”, Edición de Jose Luis Puerto, 2001